HOME PAGE

INCONTRO-DIBATTITO IN OCCASIONE
DEL PRIMO ANNO DI ATTIVITÀ
DELLA CASA FAMIGLIA DI NARDÒ (LE)

(NARDÒ, OTTOBRE 1981)

RELAZIONI INTRODUTTIVE

Maria Luisa Marra, Andrea Mazzeo*
*Rispettivamente Assistente Sociale e Medico Responsabile del C.I.M. di Nardò

Ad un anno dall'apertura della Casa Famiglia (CF) di Nardò gli operatori hanno sentito l'esigenza di incontrarsi con quanti sono interessati a questo aspetto dell'assistenza psichiatrica per verificare se una struttura di questo tipo sia in grado di rispondere alle finalità indicate dalle più recenti leggi nel campo dell'assistenza psichiatrica.

Lasciamo agli altri interventi la descrizione della vita nella CF e degli effetti prodotti da questa struttura nella realtà sociale del Comune di Nardò e ci soffermiamo ad analizzare, se pur brevemente e parzialmente, il ruolo svolto dagli operatori del C.I.M. all'interno della CF ed il loro rapporto con essa.

Inizialmente il C.I.M., anche per una contiguità strutturale con la CF in quanto ospitato temporaneamente negli stessi ambienti, ha avuto un rapporto molto stretto con essa; questa circostanza ha prodotto un duplice effetto:

a) da un lato ha consentito agli operatori del C.I.M. di collaborare strettamente con gli operatori della CF e di intervenire attivamente tanto a livello di strutturazione delle dinamiche interpersonali che si andavano creando al di fuori di una situazione istituzionale, che a livello di gestione della casa;

b) dall'altro ha prodotto effetti a nostro parere negativi, di cui riportiamo quello più significativo.

La presenza costante di una équipe di tecnici ha riprodotto uno schema di tipo ospedaliero: si è assistito nuovamente all'attribuzione di delega al medico, dando al suo intervento un significato di onnipotenza; l'assistente sociale ha continuato ad avere compiti di tipo previdenziale ed assistenziale; gli infermieri hanno necessariamente limitato il loro intervento ad un compito riduttivo di sorvegliannza.

Ne è derivata una situazione di completa dipendenza della CF dal C.I.M. per cui non veniva presa alcuna iniziativa all'interno senza avere prima consultato il medico o l'assistente sociale.

Il trasferimento del C.I.M. presso la sede definitiva ha di fatto accelerato il processo verso l'autonomia della CF, peraltro già avviato in precedenza attraverso una gestione di tipo comunitario (ci riferiamo qui ad una situazione tipo Comunità Terapeutica secondo l'esperienza di Maxwell Jones al Dingleton Hospital, di Melrose in Scozia), con assemblee settimanali sia per decidere su vari aspetti della vita in comune (es. il menù quotidiano, l'attribuzione di compiti a ciascun ospite, ecc.) che per affrontare i conflitti che sorgevano all'interno.
È stato attraverso questo tipo di gestione che ci è stato possibile ad es. affrontare alcuni comportamenti clamorosi di qualche ospite senza fare ricorso ad un pesante intervento farmacologico, demandando appunto il problema all'assemblea.

Non sempre questa modalità di gestione è stata ben accettata dagli ospiti o dagli operatori, condizionati entrambi da una situazione istituzionale, l'ospedale psichiatrico, che non attribuisce eccessiva importanza alla rete di comunicazioni interpersonali; si è rivelata comunque quella più idonea a garantire una effettiva vita di comunità, e in tal senso un ruolo positivo è stato svolto dagli animatori della Cooperativa C.I.S.A.C., probabilmente perché liberi da condizionamenti istituzionali.

La conseguenza più evidente del progressivo distacco del C.I.M. dalla CF, e quindi del rifiuto, forse non bene esplicitato, della delega alla gestione dei bisogni degli ospiti, è stata che da una parte gli ospiti stessi si sono avviati verso livelli di autonomia sempre maggiori, dall'altra gli operatori hanno vissuto questo cambiamento con notevole senso di abbandono, mostrando una certa difficoltà (causata a nostro parere dai condizionamenti istituzionali di cui si è detto) ad adattarsi al nuovo ruolo loro richiesto.
Tale difficoltà ha determinato fra l'altro l'equivoco di una maggiore assunzione di potere degli operatori nei confronti degli ospiti.

È il caso a questo punto di aprire una breve parentesi al fine di precisare che quando parliamo di potere, in questa sede, non intendiamo qualcosa di trascendentale, né intendiamo evocare immagini di padroni e di schiavi, ma semplicemente parliamo di potere riferendoci a tutti quegli aspetti della vita quotidiana che fanno si che una persona abbia il potere, e la consapevolezza del potere, di decidere da sé la propria vita.

Analogamente quando parliamo di condizionamenti istituzionali non intendiamo evocare l'immagine di qualcuno che opera tali condizionamenti a danno di qualcun altro che li subisce, ma semplicemente intendiamo dire che ogni situazione istituzionale, sia essa l'ospedale psichiatrico, l'ospedale civile, la scuola, ecc., condiziona necessariamente il comportamento di tutti i suoi membri mediante le sue regole, la sua logica, i suoi giochi, latenti o manifesti, espliciti o impliciti; e ancora, per non essere fraintesi, parliamo di regole senza fare riferimento ai regolamenti (ché ogni istituzione deve avere i suoi regolamenti) ma riferendoci alle regole non scritte.

In tale situazione, che ripetiamo è la stessa per ogni istituzione, la ricerca di qualcuno che abbia la colpa del cattivo funzionamento dell'istituzione o si rivela sterile o sfocia nella rissa oppure approda alla spiaggia del "capro espiatorio": così facendo, lungi dal cambiare l'istituzione la si rinforza, rinforzando così i suoi condizionamenti (e questa è proprio una delle regole dell'istituzione che, come si vede, agiscono al di là della volontà e della consapevolezza dei suoi membri).

Ci sembra opportuno concludere sottolineando un aspetto che potrebbe tornare utile per altre esperienze simili. Intendiamo riferirci al reinserimento nel tessuto sociale di pazienti dimessi dall'ospedale psichiatrico dopo un lungo periodo di degenza, che per alcuni può superare i 20 anni, senza che all'interno dell'ospedale si sia iniziato un lavoro di riabilitazione e di risocializzazione degli stessi, e parallelamente un lavoro di riqualificazione professionale degli operatori destinati alla Casa Famiglia, come invece è accaduto in altre Province.

Lasciamo questo aspetto come interrogativo per il dibattito successivo.



Benito Baccassino, Mario Cretì, Antonio De Benedittis, Mario De Pace, Franco Gallo, Giovanni Manca, Michele Però, Pasquale Settimo, Nino Vaglio*
*Operatori della Casa Famiglia di Nardò

La maggior parte di noi vive nel manicomio da circa 15 anni; all'inizio non sono mancati i traumi, poi ci siamo adattati. Il lavoro però non poteva appassionare, i malati erano per noi dei corpi da costringere, da lavare, da punire o da premiare a seconda delle circostanze.

Quasi mai parlavamo con loro, non ce n'era il tempo né la voglia, sembrava di avere di fronte dei robot, tutti compivano sempre gli stessi gesti, pronunciavano le stesse parole, un po’ per paura e un po’ perché anche loro si erano adattati.
Con i malati paesani si scambiava qualche parola in più e spesso, per rallegrare un po’ il clima, si scherzava con qualche malato (forse sarebbe più giusto dire "su qualche malato") in genere quelli a cui ci affezionavamo di più.

Così sono trascorsi 15 anni, fra rifare i letti, lavare i gabinetti, distribuire le compresse, fare le iniezioni e sorvegliare in pochissimi tanti malati, a nostra volta sorvegliati dall'infermiere scelto, a sua volta sorvegliato dal sorvegliante, a sua volta sorvegliato dal capo infermiere, a sua volta sorvegliato da ...ecc...ecc... e ciascuno cercava di fare il furbo con quelli di "grado" superiore.

Poi un bel giorno, con l'entrata in vigore della legge 180, l'Assistente Sociale cominciò a parlare di Casa Famiglia. A noi il discorso andò bene da subito perché, indipendentemente da tutte le altre cose, ci sembrò favorevole dal punto di vista economico, visto che la Casa Famiglia ci permetteva di lavorare a Nardò.

Approfondimmo l'argomento però cominciammo e vedere che poca chiarezza c'era sul tipo di lavoro che avremmo dovuto svolgere.
Ci davano delle indicazioni a grandi linee, ci dicevano che non eravamo più infermieri ma "operatori", ma anche loro avevano le idee confuse; e poi come potevano pretendere autonomia, intraprendenza da chi per 15 anni aveva solo obbedito?

Capimmo che le cose si mettevano male e chiedemmo dei corsi di aggiornamento o quanto meno di visitare qualche altra Casa Famiglia per sapere come comportarci. Non abbiamo avuto niente di tutto questo e già da un anno lavoriamo qui dentro non senza difficoltà.

Specialmente all'inizio abbiamo cercato di colmare queste carenze gettandoci a capofitto nel lavoro che conoscevamo: pulizie dei pavimenti, ecc., offrendoci persino di cucinare. Come era naturale il lavoro inteso solo così nonostante tutti gli sforzi non ci dava soddisfazione, ci trovavamo quasi diminuiti di "grado" (non avevamo e non abbiamo dimenticato il manicomio) e per di più insoddisfatti e spesso in contrasto con gli altri operatori della Casa Famiglia per quanto riguarda l'atteggiamento assunto nei confronti degli ospiti.
Loro erano cambiati, qui avevano una volontà e spesso la manifestavano con tenacia, molte volte sbagliando, e non sapevamo come prenderli: i vecchi metodi non erano ammessi e i nuovi o non li sapevamo o non ci convincevano.

L'unico vero problema per noi è stato questo.
Abbiamo dovuto con l'esperienza e con l'angoscia derivata dalla perdita di identità costruirci giorno per giorno come operatori.

Oggi le cose vanno molto meglio ma ancora lavoriamo molto in questo senso e continuiamo a ritenere che il confronto con qualche altra Casa Famiglia dove operano infermieri sarebbe necessario.



Vincenzo Durante, Lino Prete, Dora Raho, Anny Sanasi, Giovanna Spagnolo, Daniela Spagnolo-Palma*
*Animatori socio-culturali della Cooperativa C.I.S.A.C.

Nella Casa Famiglia di Nardò, fin dalla sua nascita, lavora un gruppo di operatori sociali che si interessa dell'assistenza ai dimessi dall'ospedale psichiatrico e di tutte le attività di tipo comunitario utili al fine della loro riabilitazione e del loro reinserimento sociale e lavorativo.

All'inizio gli operatori, evitando di identificare ciascun ospite con l'handicap e di pensare che tutti i bisogni scaturissero da esso, hanno cercato di fare acquisire agli ospiti stessi la conoscenza di sé e del mondo esterno.
Gli operatori sono convinti infatti che il non conoscere il valore del denaro, il non saperlo amministrare, il non sapersi vestire, il non saper usare le posate, in una parola il non saper vivere in società degli ospiti non poteva addebitarsi al tipo di handicap di cui erano portatori ma piuttosto alla lunga degenza manicomiale.

L'atteggiamento di "normalità"" nei confronti degli ospiti non sempre ci riesce facile, corriamo il rischio di sfociare nel paternalismo e nell'autoritarismo vista la loro "disponibilità" ad essere "oggetti gestiti" e non "soggetti autogetentisi".

Il primo nostro problema è stato quello di entrare in comunicazione con loro.
Abbiamo cercato di capire come essi reagissero e vivessero gli stimoli inviati da noi e dall'ambiente; infatti reazioni che apparivano irrazionali erano probabilmente dovute al fatto che ricollegassero tali stimoli al loro vissuto.

Il primo periodo di vita in comune è stato caratterizzato da movimenti di assestamento e di adeguamento degli ospiti tra loro e tra gli ospiti e gli operatori.
In questa fase abbiamo dovuto guadagnarci con disponibilità incondizionata e con l'ascolto la loro fiducia, quella delle loro famiglie e, perché no, quella degli infermieri influenzati anche loro, come gli ospiti, nella pratica quotidiana, dall'esperienza manicomiale.

Attraverso attività-stimolo abbiamo cercato di indurre ogni ospite a riscoprire interessi ed eventuali predisposizioni sopite.
Gli operatori e gli ospiti hanno cercato inoltre di stabilire delle regole concernenti la convivenza e il comportamento all'esterno della casa.
L'applicazione di tali regole comporta spesso dei conflitti che diventano oggetto di assemblee periodiche, per cui il nostro lavoro in questi casi consiste nel far comprendere agli ospiti che da tali conflitti non escono vincitori e vinti perché in esse non c'è sopraffazione.
Il rispetto delle regole viene garantito con la discussione dei vantaggi che potrebbero derivare da una determinata azione e con la consapevolezza della "non approvazione" da parte dell'assemblea, che segue ad ogni trasgressione.

Per il reinserimento degli ospiti nel tessuto sociale abbiamo individuato diversi soggetti: familiari, amici, conoscenti, il barista, il tabaccaio, il barbiere, il fruttivendolo, i vicini di casa, che sono stati invitati ad incontri-feste organizzati nella CF in occasione di ricorrenze speciali (compleanni, onomastici, Natale, Carnevale, e altre).
Particolare rilievo ci sembra si debba dare al rapporto di amicizia che si è instaurato fra gli ospiti della CF e gli anziani di Nardò assistiti dal Comune. Questo rapporto, iniziato in occasione di un soggiorno estivo in comune, ha portato a due successivi incontri, un pranzo ed una cena organizzati dagli ospiti per gli anziani nel periodo natalizio.

Sempre a proposito del reinserimento degli ospiti nel territorio, i contatti frequenti con gli altri e la nostra presenza, hanno evitato che essi fossero canzonati per strada, ricorrenza frequente in piccole comunità come la nostra.

La risocializzazione e il reinserimento nel territorio sono dovuti naturalmente passare attraverso la crescita e la "considerazione di sé" che noi abbiamo cercato di alimentare in ciascun ospite fin dall'inizio.
Il fatto che se parli alla fine non vuol dire che questo sia un obiettivo di poco conto.
Piuttosto è il presupposto di ogni altro successo. La "considerazione di sé" si è realizzata attraverso una crescente cura della propria persona: pulizia, abbigliamento, ecc. prima e l'affermazione della propria personalità (difesa dei propri diritti, delle proprie opinioni, affermazione di nuovi bisogni).

Un bisogno emergente è oggi la richiesta, da parte degli ospiti più giovani, di una attività lavorativa.
La nostra risposta è stata la elaborazione di una serie di progetti di laboratori artigianali per la lavorazione del legno, del cuoio, della cartapesta.
Le attività artigianali offrono, secondo noi, ampie possibilità espressive e il recupero di alcune tradizioni della nostra terra.
Si può contare inoltre su un vasto mercato che garantirebbe agli ospiti una immediata gratificazione economica.

In attesa che il Comune di Nardò metta a disposizione i fondi occorrenti per la realizzazione di tali progetti, noi operatori abbiamo iniziato alcuni ospiti alla tecnica della cartapesta. Ne è seguita la realizzazione di prototipi che hanno per oggetto figure economiche della nostra terra: mietitore, bracciante, contadino, pescatore, e figure che fanno parte della nostra storia popolare.

Il lavoro di animazione è come una spirale: posto un obiettivo e realizzatolo se ne pone subito un altro; ma i passaggi non sono sempre regolari, i periodi neri non mancano, le stasi e i regressi fanno parte della pratica quotidiana.

Torna alla pagina precedente
E-Mail: info@andreamazzeo.it

HOME PAGE

Dal 1° GEN 2000 questa pagina è stata visitata volte. Grazie per la visita.


I TESTI SONO DISPONIBILI SU AMAZON